Vita e sogni

Kossi-Komla-Ebri

VITA E SOGNI
RACCONTI IN CONCERTO

 

Prima edizione
Settembre 2017
"VITA E SOGNI"  RACCONTI IN CONCERTO - Edizioni dell'Arco

TOUBA CULTURALE ITALY srl
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Progetto grafico, copertina e impaginazione:
Alessandra Carcano

Stampato in Italia 2019
proprietà letteraria riservata
©
Touba Culturale Italy srl

www.toubaculturaleitaly.wordpress.com

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

 

Introduzione

     In una delle pagine di questa raccolta, uno dei personaggi della straordinaria galleria che Kossi Komla-Ebri ci propone, Elom, dice: “Soffocante la questua di tenerezza in terra straniera”. E poche righe dopo dice anche: “Scrivere libera e sconfigge la solitudine. Scrivere è taumaturgico contro la nostalgia, la ghurba, la saudade. È un modo per urlare: ‘Esisto, ci sono anch’io in questa società che mi vuole ignorare nella mia essenza’.”
Certo, si dirà che chi parla qui è Elom, non lo scrittore. Ma dietro il velo sottile della finzione, si riconosce evidente il suo volto. D’altronde non è una questione che riguarda solo l’autore di questo libro: ogni scrittore, lo sappiamo bene, scrive per essere amato.
Non lo so chi l’abbia detto per primo. Garcia Marquez forse? O Calvino o Houellebecq o McInerney, oppure io? Ma non importa: qualunque scrittore lo pensa e non esita a dirlo, sapendo o meno che qualcuno l’ha già detto prima di lui.
Kossi Komla-Ebri, però, ha qualcosa in più di un “qualunque scrittore”: è anche uno scrittore migrante, insomma, stando ancora con Elom, uno scrittore in terra straniera. E da qui, allora, s’accende l’amplificazione del bisogno di tenerezza (come dice Elom), di considerazione, di affermazione, di visibilità.
Dobbiamo ringraziare Kossi Komla-Ebri per la franchezza e il commovente mettersi a nudo che ci regala in quelle righe, e cioè per aver detto esattamente quelle cose che altri scrittori invece, nascondono forse per pudore o forse per malafede.
Ma dobbiamo ringraziarlo anche perchè su queste basi, su queste pulsioni e motivazioni, ciò che ha poi costruito è un catalogo di buoni libri, un gruppo di racconti e di romanzi che si leggono bene e volentieri, con appagamento e imparando non poco.
Il punto è questo: Kossi Komla-Ebri, è un vero scrittore. Un vero, talentuoso raccontatore di storie. Certamente i temi relativi alle differenze, all’integrazione, ai pregiudizi, e alle radici ben diverse da quelle di un europeo innervano possentemente la sua scrittura. Ma, appunto, come per ogni buono scrittore, si sciolgono in un flusso narrativo che ci prende dalla prima riga e ci porta alla parola fine. Certamente, il bisogno di farsi amare, benvolere, considerare, è pressante, lo si respira una pagina dopo l’altra, ma ce ne si accorge solo alla fine, quando si è terminato il romanzo o il racconto e si cerca di analizzarlo a freddo. Perchè, a caldo, si pensa solo: “ma che bella, strana cosa che ho appena letto...”.

Bello, diverso, particolare, è ciascuno dei racconti di questa piccola raccolta eclettica. Sono racconti che vengono da fonti diverse, alcuni d’occasione, altri scritti per partecipare a concorsi e
antologie. Sono racconti che spaziano dalla cronaca quotidiana alla favola e alla fantasia, sono racconti che ci parlano di un qui e di un altrove, di un’Italia, di un’Africa, e di paesi siti solo nell’immaginazione dell’autore. Sono un catalogo multicolore ma non patinato dell’universo immaginifico di Elom. Anzi, pardon: di Kossi.
Benvenuti nel luna park della sua immaginazione, buon divertimento, e attenti a non farvi male.

Piersandro Pallavicini

Il buio della notte

Elom Doglo fu svegliato dal violento sbattere delle serrande. Le aveva lasciate semi aperte per creare un po’ di corrente d’aria. Si destò madido di sudore, respingendo le lenzuola. Udì il vento ululare e gemere fra le inferriate come affranto da un male oscuro. Subito Elom fu afferrato dalla sua eterna angoscia. Già i suoi pensieri si rincorrevano febbrilmente a onde. Cavalcandosi a valanga, essi affollavano, ossessivi, la sua mente: addio sonno.
Di colpo come una furia, l’aria s’incagliò nella stanza dispiegandosi seccamente come le vele di un battello. Fuggitivo intrappolato, egli cercava una via di uscita, sollevando disperatamente le tegole del tetto.
Ormai desto, gli ingranaggi del cervello di Elom si rimisero in moto. Lentamente i ricordi, i concetti si gonfiarono come bollicine. Si attiravano come calamitate confluendo in bolle più grosse scoppiettanti, poi si cristallizzavano. A volte gli sembrava quasi di sfiorare con la mente una luce, una verità. Poi tutto svaniva e ritornava l’insoddisfazione, la noia, il male d’essere, di vivere. Gli pareva di viaggiare lungo vie conosciute e scendere inesorabilmente alla stazione sbagliata. Peggio: ogni volta perdeva il treno o la coincidenza. Così flebilmente i suoi pensieri evaporavano, lasciando dentro di lui il vuoto dove presto si annidava l’ansia.
In lontananza, il cielo borbottava insoddisfatto. La pioggia scrosciava ad annaffiare il suolo in grosse gocce . L’aria si dilatò con l’acre profumo d’asfalto caldo, fumante.
Elom Doglo si sedette sul margine del letto, la testa ciondolante, pesante.
Un tuono smorzato echeggiò in lontananza. Egli si alzò per raggiungere il balcone. Fu subito investito da un tuono più forte e abbagliato da un lampo azzurro che squarciò l’oscurità ferendo il buio della notte. Piano, piano il brontolio si allontanò con echi di stormo d’aerei volando a bassa quota.
Elom vide il display dello stereo lampeggiare: per un attimo era mancata la corrente. Accecato dal lampo, osservò il buio della notte farsi palpabile e minaccioso, con grappoli di nuvoloni appesi al cielo.
Ora la pioggia, che prima cadeva come lacrime lorde e pesanti, si fece fine e frustante come gli spruzzi del pomello incrostato di una doccia. L’aria pesante si fece tiepida, poi a mano a mano più fresca.
Elom Doglo fu scosso da un brivido: gli venne la pelle d’oca.
Rientrò nella stanza.
L’orologio sul comò segnava le tre di notte. Tornò a letto, tirando su le lenzuola per coprirsi. Si raggomitolò, gustando voluttuosamente la frizzante e calda sensazione di essere al riparo.
Fuori, nell’ululato del vento, la natura si scatenava graffiando tutto sul suo passaggio.
Elom cercò di riaddormentarsi coagulando la mente su un pensiero roseo, un pensiero felice.
Purtroppo il temporale aveva chiuso le tende del sonno, sprangando ogni speranza.
Ombre di presenze indefinite popolavano ora la stanza. Timori insalubri affollavano la sua mente.
Gli sembrò d’udire una voce. Misteriosa, la voce diceva:
– Non guardare mai il buio della notte quando sorride...
Occhi chiusi, egli cercò di scappare a se stesso, al suo tormento.
Silenziosa la sua anima scivolò nella notte. A piedi nudi, alla chetichella, la sua anima fece il giro del suo cuore. Scoprì un’isola, sola, deserta.

Elom Doglo si sentì una virgola, macchia d’inchiostro, nera, sbiadita su una pagina della vita.
Allungando la mano verso l’altra sponda del letto sentì il riconfortante tepore del corpo di Giorgia. Giorgia Venanzi era la sua compagna da quattro anni. Elom avvertì il regolare sollevare del suo petto: dormiva prona, ignara del maltempo.
Egli accarezzò le curve dei suoi fianchi. Indugiò ad asciugare con le dita le perle di sudore che si rannicchiavano nella bassa valle della sua schiena. Lei non si mosse.
Elom era triste. Avrebbe tanto voluto il conforto delle sue carezze, il calore del suo corpo per riscaldare questa sua anima in pena.
L’angoscia sembrava aver scavato dimora in ogni angolo del suo essere, lungo ogni fibra di quell’involucro che si portava addosso. Sul bordo del baratro, con la complicità della notte, egli sfiorò il suo braccio. Cercò la sua mano. Accarezzò le sue dita e lei si girò, voltandogli le spalle, ancorandosi al materasso.
Provò ancora a cercare la sua mano. Lei la ritirò ed Elom sprofondò nell’abisso.
Odiava la notte con quel peso che l’opprimeva nel petto. Si alzò di nuovo per uscire da quelle lenzuola appiccicose che lo soffocavano.
Fuori, la notte tinse la città di un velo di nero. Buio denso, rumoroso. Non sapeva quanto era il peso della solitudine rispetto a quello della nostalgia per la sua terra.
Indefinibile malinconia quel fuoco che arde sotto le ceneri del vivere quotidiano in terra straniera. Quel sempre sentirsi nessuno. Peggio, non esistere: percepire gli sguardi, curiosi, irritati o compassionevoli scivolarti addosso come se fossi un’ombra.
Estenuanti ricordi intrecciati a suoni, rumori, odori, profumi, colori e risa.
D’improvviso, il ricordo vivido di una voce della sua infanzia: quella di nonna Amewonò.
La nonna era sicuramente l’unica persona con cui non aveva avuto bisogno di fare lo spavaldo. Mama Amewonò era l’unica che lo difendeva ed egli usava sedersi vicino a lei quando sentiva l’aria temporalesca aleggiare in casa. Per comunicare con lei non avevano bisogno di parole. Si lasciava covare in quel silenzio intriso di complicità. Accovacciato vicino a lei, disegnava nella sabbia figure con un pezzo di legno, mentre lei rigirava instancabilmente con maestria il cotone attorno al fuso per fare nascere il filo. Di tanto in tanto, l’anziana si fermava e senza accennare a nessun gesto, lui le porgeva la piccola pallina di zucca contenente il tabacco macinato. Lei si faceva una presa ricurvando l’indice attorno all’unghia del pollice, si comprimeva alternativamente una narice e poi l’altra inspirando profondamente con un “Ah!” di soddisfazione. Dopo essersi stretta il naso, starnutiva un liquido brunastro gli colava dal naso che puliva con il rovescio della mano, si asciugava la mano sulla stoffa del
pagne, lo gratificava con un sorriso sdentato di complicità poi tornava a filare.
Per un attimo a Elom sembrò di sentire la voce di Mama Amewonò che diceva:
– Non guardare il buio della notte quando sorride...
Quanto gli mancava sua nonna!
Soffocante la questua di tenerezza in terra straniera. Amare ed essere amato: quattro parole, tutta una vita. Meglio, tutto il sogno di una vita.
Dura realtà del sussistere. Ognuno trascina penosamente se stesso nell’ombra della sua vita, modellandosi addosso maschere di
circostanza sotto l’effimero fardello del vivere su palcoscenici
improvvisati. Per non annegare nella nostalgia Elom pensò:
“Dovrei tornare a scrivere. Sì, domani torno a scrivere e finisco questo dannato romanzo!”.
Scrivere libera e sconfigge la solitudine. Scrivere è taumaturgico contro la nostalgia, la
ghurba, la saudade. È un modo per urlare: “Esisto, ci sono anch’io in questa società che mi vuole ignorare nella mia essenza”, “Non sono afasico, non sono il vostro oggetto, non sono un cittadino di seconda classe!”. Rasserenato dalla sua decisione, di sfida, si mise a sorridere al buio della stanza.
Le ombre si diradarono. Elom piombò nel sonno. La fronte sgocciolante di sudore nell’afa di una sala stracolma. Il fascio potente di uno spot illuminava il palco a giorno.
Era su un palco. La folla l’acclamava. In piedi. Non riusciva a reprimere un largo sorriso. Aveva le guance indolenzite di contentezza. Il suo romanzo era un successo. Nel fondo della sala, Giorgia sorrideva, in disparte: fiera, gli occhi lucidi. L’aria profumava d’incenso. Elom si sentiva leggero. Il presidente della giuria suonò per richiedere silenzio.
Il pubblico non smetteva di applaudire. Il suono della campanella persisteva, irritante come quello di una sveglia. La sveglia! Elom allungò la mano per spegnerla. Giorgia si era già alzata. Accanto a lui le lenzuola vuote e spiegazzate portavano le impronte del suo corpo. Il cervello gli rimbombava dentro la testa.
– Illuso! – mugugnò. Una piega amara gli si raggelò all’angolo della bocca.
– Non guardare mai il buio della notte quando sorride... nasconde false verità – così diceva la voce della nonna.

Racconto pubblicato su L’Unità, sabato 24 Agosto 2002, pag. 27.

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